domenica 26 gennaio 2020

PAROLA E MEMORIA


Le parole fanno cose”, nel mondo della Scuola è uno slogan celebre che viene utilizzato quando si parla di inclusione. Deriva dal titolo di un'opera del filosofo inglese John Austin in cui egli sosteneva che la parola è capace di farci fare cose solo se nasce da un atto.
Anche la denominazione, nel processo di territorializzazione di un territorio, ha sempre connotato il potere sul territorio stesso. Ad esempio, la Serenissima denominò il territorio che lei stessa aveva contribuito a costruire con il Taglio di Porto Viro del 1604, assegnando alle nuove terre emerse i nomi delle famiglie veneziane che ne divennero le proprietarie, nomi spesso preceduti dalla particella “Ca'...” che significa “casa” (Ca'Venier, Ca'Vendramin, ecc.). E quei nomi divennero l'identità del territorio stesso. Identità formalizzata dalle carte dell'epoca, dove compaiono, insieme alle parole, i numeri, i conti, che parlano dell'interesse dei veneziani sul Delta.
Questa relazione parola-cosa-potere, alle porte della Giornata della Memoria di domani, mi porta alla memoria un passaggio da “I sommersi e i salvati” di Primo Levi: “A partire dall’inizio del 1942, ad Auschwitz e nei Lager che ne dipendevano, il numero di matricola dei prigionieri non veniva più soltanto cucito agli abiti, ma tatuato sull’avambraccio sinistro. (...) L’operazione era poco dolorosa e non durava più di un minuto, ma era traumatica. Il suo significato simbolico era chiaro a tutti: questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non avete nome: questo è il vostro nuovo nome.”

Il Giorno della Memoria, nella scuola primaria, è rimasto forse l'unica occasione di parlare di Shoah dopo che è stato stabilito che con il curricolo di storia si arrivi alla caduta dell'impero romano.
Domani mattina, per iniziare a parlare di Shoah con i miei bambini di classe prima, leggeremo il noto albo illustrato di Tomi Ungerer, “Otto, autobiografia di un orsacchiotto”.

La cosa che cominceremo a fare, sarà quella di imparare una concetto fondamentale che ci insegna il territorio che viviamo, cioè che “le parole fanno cose”.

La parola-cosa-potere sarà STELLA, la stella gialla cucita sul petto di David, amico inseparabile di Oskar e dell'orsetto di pezza Otto, che è riuscita a separarli con la crudeltà delle leggi razziali e con l'atrocità della deportazione.
Ma le parole salvano, questa albo insegna anche questo. E così, la storia (le parole quindi) di un vecchio anziano di nome Oskar, che ha ritrovato il suo orsacchiotto in America in un negozio di un rigattiere, finirà sui giornali di tutto il mondo e riunirà i tre amici. David era sopravvissuto al campo di concentramento. L'albo finisce con l'orsetto che sta scrivendo a macchina:

Ora niente doveva più dividerci!
Decidemmo di rimanere uniti e
cercammo una casa per tutti e tre.
Finalmente la vita è come deve essere:
pacifica e normale.
E per non annoiarmi ho cominciato a
scrivere la nostra storia”

Le parole fanno cose... anche memoria.